Gloria del disteso mezzogiorno

Ed ad un tratto il ricordo
seconda parte 1987/2007

In questo mio narrare ho volutamente trascurato alcune circostanze; si tratta di fraintesi, che non avendo avuto nessun chiarimento hanno fatto cessare amicizie, sincere, con persone alla quale io tenevo e tengo tutt’ora stima e gratitudine.
Riccardo III, Shakespeare: “ora l’inverno del nostro scontento è reso estate gloriosa da questo sole di York, e tutte le nuvole che incombevano minacciose sulla nostra casa sono sepolte nel petto profondo dell’oceano”. “L’inverno del nostro scontento” è, appunto, il titolo dell’ultima opera colorata (1986), da questo momento in poi, strappo tutti gli strati di “pelle” e arrivo sul fondo, dove scopro la verità. Innanzitutto una scelta diversa di supporti e di materiali “più sinceri”, grafite, ferro, carta, poi si aggiungeranno corda, oro e argento in fogli.
Erano pressappoco le 22, 00 di una sera come tante, la moglie di Vitagliano Corbi mi telefona: Peppino, complimenti, sei stato invitato alla Biennale del Sud. Subito dopo avvenne un cambiamento - un grande passo in avanti - ad un tratto seppi leggere in me il silenzio dell’anima. Spinto da una carica interiore, feci una scelta coraggiosa - s’intende per me - ma inspiegabile per gli altri: abbandonai il colore. Pazzesco, le mie opere piacevano, li vendevo i quadri, e allora perché abbandonare? Essere onesto in un mondo falso, apparente, effimero, dove ognuno fa, molto spesso, quello che ordinano gli altri è difficile è perdente, tutti ti abbandonano, non “capiscono” e tu devi ricominciare daccapo.
“FERMACARTE”, lavorare tutti lavorare meno, mostra di sculture, realizzate con tubi di ferro arrugginito con aggiunta di fogli di carta pergamena. Elvira Procaccini mi scrisse una frase bellissima, dietro la pagina del catalogo, che racchiude sinteticamente il concetto: “Fermacarte 1991 – ferro, carta, ghiaccio sintetico si allunga, Pino, fino a sfondare il soffitto stuccato. E’ più bella di quanto immaginassi, la tua mostra. E’ più circolare di quanto immaginassi. E’ più scultura che fusione, è più materia che lavoro – E’ materia che lavora. Con affetto da Elvira”. La lettura del libro di Lucrezia de Domizio Durini, “Il Cappello di Feltro” – Joseph Beuys – una vita raccontata, mi rese il compito più facile.
Lavoravo intensamente, come sempre, al mio nuovo progetto: “SENZACOLORANTI”, che presentai alla galleria di Tommaso Ferrillo (ArtexArte), 1994. Il titolo piacque a tanti, anche ai Critici, “senzacoloranti” sintetizza tutto quello che io volevo cambiare nel mio lavoro. Infatti “senzacoloranti” non azzera l’uso del colore, ma come abilmente ha scritto Simona Barucco: …”SENZACOLORANTI è la necessità di sgombrare il campo dal colore per leggere la materia nuda, senza imperfezioni. Il lavoro di superficie diviene, di volta in volta, una ricerca nella propria identità, nel non colore che esiste in ognuno di noi, matrice essenziale del mistero della creatività”.
“Penso ai miei dipinti come a opere teatrali: le forme che appaiono sono gli attori sul palcoscenico. Nascono dalla esigenza di trovare un gruppo di interpreti in grado di muoversi sulla scena senza imbarazzo e di compiere gesti teatrali senza vergogna.
Non è possibile prevedere né descrivere in anticipo quale sarà l’azione o chi saranno gli attori. Tutto ha inizio come in un’avventura sconosciuta, in un mondo mai veduto prima. E’ solo nel momento del compimento di questa avventura che ci rendiamo conto, come per un’illuminazione improvvisa, che ciò che si è concretizzato sulla scena è proprio quello che deve concretizzarsi. Tutti i programmi, tutti i concetti che avevamo all’inizio erano solo una via di uscita che ci ha permesso di abbandonare il mondo da cui questi stessi concetti hanno avuto origine”. E’ sorprendente, a volte, anzi non si può spiegare, due persone, vissute in tempi diversi hanno lo stesso pensiero, è il caso di queste frasi di Mark Rothko. Chi non conosce questo straordinario interprete della pittura informale; io ho avuto anche la fortuna di vederle da vicino le sue opere e posso, senza nessun ostacolo, affermare che fanno commuovere. Leggendo i suoi scritti ho realizzato il progetto, presentato alla rassegna “I Cortili dell’Arte”, il 15 maggio 2004, dal titolo: “Il Pasto Non Sarà Servito”. Era una istallazione. Dipinsi una stanza tutta grigia, anche il pavimento, un grigio, non troppo scuro, ma nemmeno troppo chiaro, un grigio adatto a contenere le mie opere. Alle mura vi erano tre opere, di cui una molto grande, mentre al centro c’era un tavolo 140x140, tutto nero, con sopra una serie di guantierine, quelle dei dolci della domenica, realizzate con la mia tecnica attuale, mentre in un angolo c’era un piccolo impianto che riproduceva del vociare, tipico di ristorante o pizzeria: “Il dipinto non può vivere nell’isolamento. Ha bisogno dello sguardo di un osservatore sensibile per potersi ridestare e sviluppare. Senza quello sguardo il dipinto muore. Ogni volta che ci si congeda da un’opera e la si consegna al mondo si compie un gesto rischioso e spietato. Quante volte il nostro dipinto sarà irrimediabilmente offeso dallo sguardo volgare o crudele di coloro che vogliono riempire l’intero universo della loro meschinità, della loro impotenza!”, è sempre un testo di Mark Rothko, se mi è permesso vorrei aggiungerci, appunto: “IL PASTO NON SARA’ SERVITO”.
Non è assolutamente un gioco - leggo un libro e ricavo un titolo - no, non è cosi. Un artista vive isolato, non ha amici, pensa, sogna, cammina, viaggia, corre, vola lontano, sempre più lontano, la sua mente non si ferma mai, è sempre “distratto” con gli altri, ma mai con se stesso, lui sa cosa deve cercare. Leggere mi da la certezza che io non sono solo, ma vivo una realtà circondata da persona simili a me, da amici “fantasmi”, che hanno sognato vite diverse: bellezza, amore, armonie condivisibili. Utopie?
“Ora senta un po’, che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe”, “Fu Mattia Pascal”, romanzo di Luigi Pirandello. Se si facesse piazza pulita di tutte le cattiverie, malefatte, ribalderie, canagliate, scelleraggini, bricconate, malignità, malvagità, perfidie, perversità, crudeltà, tristizie non è questo “Lo strappo nel cielo di carta”? – La paretearticontemporanee – dicembre/gennaio 2007.

P.S. Forse in un’altra vita o epoca potrei essere stato un re.

prima parte 1968/1986

Della mia infanzia non ricordo quasi niente, forse è un fatto voluto; però ricordo volentieri un accaduto, che mi ha raccontato sempre mia madre: quando frequentavo la scuola materna, affermavano che ero terribile, ma quando mi davano un album e una scatola di pastelli scomparivo dalla scena.


Gloria del disteso mezzogiorno

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